Giacomo Cerrai - ellisse.altervista.org
Di Spigno, come ad esempio De Lea (v. QUI , – ma con altri esiti, altre tonalità, un diverso uso plastico della lingua), è poeta in cui la scrittura è ricerca di rassicurazione e identità. Lo è per diversi aspetti, a cominciare dal suo “sforzo di frenare o addirittura di arrestare il flusso del tempo, di illuminarne una fermata” (Umberto Fiori in prefazione), il che mi pare significhi, anche alla luce dei testi di questo libro, non solo una ricognizione per momenti e luoghi topici della propria vita, ma anche la ricerca in essi del proprio essere attuale.
E’ in altre parole un ragionato ritorno a casa (dovunque in realtà essa sia), in cui però la nostalgia ha un’importanza relativa, è più motivo lirico/elegiaco che epico o tragico, poiché mi pare vi manchi un’eco lancinante, come se Di Spigno di quella “casa” riconoscesse più la forza evocativa e identitaria che la sua mancanza. Luogo che tuttavia certamente non “sembra proprio una casa qualunque e indolore” (in La nudità, Pequod, 2010, v. QUI ), una specie di disperso, molteplice e personale “posto delle fragole” su cui Di Spigno posa uno sguardo essenzialmente rivolto al passato, facendo un po’ il punto della propria vita. Se il tempo ha un senso, quindi, – e qui sta parte della rassicurazione – , è per il suo essere storia e replica (come rappresentazione) di eventi e luoghi (Roma, Gaeta, Napoli, Anzio, la Calabria…) per così dire filogenetici, di cui cioè il poeta reca traccia in sé. E poiché storia è narrazione di sé stessa e di chi trascina con sé, ecco che ne consegue naturaliter la scrittura che Stelvio ritiene più adatta, un flusso di cui avevo già parlato brevemente a proposito de La nudità, appunto narrativo, a volte ipertrofico, a volte predittivo, e in cui, come accennavo prima, trova talvolta il suo spazio anche l’elegia pura, quasi foscoliana, come ad esempio in Faville, ma con un certo equilibrio (ha ragione ancora Fiori in prefazione) e poco timore di lanciarvisi pur col rischio calcolato di qualche sbandata, conoscendo come un pilota il suo mezzo, le sue parole. In un certo senso Di Spigno cerca e trova un’altra rassicurazione proprio in questa lingua in cui quel che devi dire e la forma in cui lo dici sono indissolubili, nella quale cioè elemento fàtico e funzione poetica sono così fusi che il carattere lirico/elegiaco vi trova la sua collocazione naturale, non extra ordinaria. Ne è così convinto che a volte si allunga e dilunga, come già avveniva ne La nudità, non è poeta che lavori per sottrazione, tende semmai a non buttare via niente di quel che ha da dire, fossero anche i nomi di persone e luoghi che risuonano, per ovvie ragioni, solo per lui. Sia i luoghi che la scrittura sono per Di Spigno, a mio avviso, spazi mentali o ricordi “affidabili”, che è necessario in qualche modo non tradire, omaggiando e rinovellando i primi con la seconda, anche con una certa maestria lessicale, con una capacità connotativa e a volte esornativa del “fatto” che tende a dare una certa aura “mitica” all’oggetto del poetare, ma che crea in definitiva una tessitura di rilievo. Quando Stelvio riesce ad allentare un po’ la pressione sull’acceleratore del dire, a favore di una emotività meno mediata, consegue gli esiti più alti come quelli (v. Il distacco) contenuti nella sezione Generazione mortale, a mio avviso la migliore del libro insieme a Le radici sepolte.
A pensarci bene più che di nostalgia o di ritorno ai lari, di tratta di malinconia/rimpianto, spesso con uno schema classico e abbastanza ricorrente di enunciazione/ipotiposi del ricordo seguita da una ripresa attualizzante/riflessiva (“Eppure quando torno…”, “E ora eccomi qua…”, “Ma intanto passano i treni…”, “Qui ho vissuto tra gente…”, “Ora io ti penso…”, “L’alba ride come allora…”, “Ecco cosa ripetono i miei anni…”, “Li rivedo in lontananza…”) con un andamento leopardiano, come ne La quiete o ne La vita solitaria per capirci, che si ritrova anche in un uso esteso del verso libero ipermetrico che già avevo notato a suo tempo, segnato più da spezzature che da enjambement significativi (ma vale la pena rimarcare anche qualche eco pasoliniana, come in Trastevere ore quindici). Tutto sommato quello di Di Spigno non è un mondo particolarmente complesso, perché non è particolarmente moderno (e nemmeno postmoderno), descrive – spesso molto bene – dinamiche intime su sfondi che, al di là della geografia, da un punto di vista lirico potrebbero essere ovunque, salta a pie’ pari (per fortuna) tutti i mugugni della crisi dell’uomo di oggi di fronte al nulla, preferendo cantare le sfumature di un esistenzialismo semplice. Entro il quale, in una prospettiva ben definita, contenuta nelle due direttrici passato/presente che tendono a riprodursi (il presente è già un passato), l’individuo/poeta si pone come custode di una memoria che aspira ad essere “non per rimpiangere, piuttosto per sapere dove andare”. Cioè una memoria non lapidaria, malleabile. Ma, dice l’autore, “siamo una specie senza predizione”, cioè senza futuro, senza contare che “il tempo non avanza di un momento”. Solo la poesia (ed è la fede di Stelvio) può sperare di risolvere una tale aporia.
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