Joseph W. era un paziente complicato. Troppo diffidente verso il trattamento cui aveva deciso di sottoporsi e troppo orgoglioso per accettare di farsi guidare dall’uomo seduto sulla poltrona verde alle spalle del divano su cui era sdraiato. Perciò gli incontri si trasformavano spesso in estenuanti bracci di ferro: da una parte lui, il giovane riluttante psichiatra intenzionato a intraprendere la
carriera di psicoanalista, dall’altra il vecchio Freud, tutt’altro che remissivo di fronte alle sue continue, piccole provocazioni.
Il copione si ripeté anche nella seduta del 19 gennaio 1935, nel corso della quale Joseph W. riferì un sogno della notte precedente in cui aveva comprato libri e funi e nel finale venne affrontato il tema delle frequenti devianze sessuali negli anziani.1
“Con
il declino dell’intelligenza, dovuto all’età, c’è anche una diminuzione delle restrizioni morali. Più vecchi si diventa, peggiori si è” disse Freud.
“Ma non tutti” obbiettò Joseph W.
“Cosa?” disse Freud.
“Non tutti” ripeté Joseph W.
A questo punto Jo-fi, che era rimasta per tutto il tempo accucciata accanto alla poltrona, ruppe l’imbarazzato silenzio e si drizzò sulle zampe. Quindi, dopo essersi stirata, sbadigliò.
Freud, che conosceva il significato di quel segnale, estrasse l’orologio dal taschino del panciotto: mancava solo un minuto ai canonici cinquanta, per fortuna. Joseph W. sollevò la testa dalla salvietta di lino bianco del cuscino, salutò il Professore e in pochi istanti si ritrovò sul marciapiede di Berggasse 19. I lampioni erano già stati accesi e Vienna, immersa in un
silenzio freddo e misterioso, si preparava ad affrontare la notte sotto una morbida coperta di neve.
Sigmund Freud avrebbe potuto anche fare a meno di controllare l’orologio: Jo-fi, l’amata chow chow, non sbagliava mai.