Ho conosciuto Enri Bo scaricando balle di fieno. Era il 1977, nelle colline del Monferrato.
È piccolo, gentilissimo, timido, parla con una voce soave che tira fuori le parole lentamente. È giovane (avrà venticinque anni), ha già pochi capelli sul cranio. Si chiama proprio così, Enri Bo, un nome che non credo esista in tutta Italia; noi in famiglia lo chiamiamo
Enribò.
Con un vecchio camioncino mi porta il fieno per il cavallo che tengo in cascina. (Lavoravo in pubblicità a Torino, allora, ma eravamo andati a vivere in campagna per poter avere i cavalli, i cani e i bambini.)
Me lo porta da Altavilla Monferrato, e avvicinandomi al camioncino posso sentire il profumo di fieno buono.
“È proprio maggengo, sa, tagliato a metà
maggio e imballato dopo tre giornate di sole…”
Le prime volte è quasi inquietante: è troppo educato, sembra quasi troppo colto. E infatti, dopo un po’, scopro che è laureato in paleografia.
“…come concime, solo drügia, solo letame naturale ben maturo”.
Un dottore in paleografia che viene a scaricarti una camionata di fieno.
È restio a parlare come i piemontesi di campagna, attaccati a
questo terreno argilloso che ti impasta i piedi ma che sa regalarti quei vini ricchi e vivi che solo qui puoi trovare, quei tartufi bianchi che – una volta che ne hai assaggiato il profumo – sono gli unici che tu possa amare.
Poi, poco a poco, salta fuori che in famiglia hanno molta terra, che il papà non sta bene
e che quindi lui deve occuparsi dell’azienda, che il camion è di un cugino, che fornisce di fieno anche lo zoo, che all’università riesce ad andarci poco, ma che sta seguendo uno studio sulle origini della nobiltà piemontese e avanti così.
Salta fuori, una volta rotto lo strato di argilla, una persona che ti affascina con la sua profonda e tranquilla
cultura della sua terra.