Seduto alla scrivania di vetro nel suo studio sul Canal Grande, Alvise Pàvari cercò di tornare a dedicarsi alla relazione che aveva appena stampato.
Dopo aver chiuso la telefonata, si sentiva come un vecchio pugile che ha incassato l’ennesimo jab al fegato.
“Ciao, Alvise; è un bel po’ che non ti fai sentire” gli aveva detto la voce di Aurora pochi
minuti prima.
In effetti, negli ultimi tempi, il loro rapporto era diventato meno intenso. Era andato a trovarla un paio di volte a Tuscania e aveva passato qualche giorno con lei. Avevano vissuto ore di grande passione. Poi, a poco a poco, senza un motivo particolare, avevano cominciato a sentirsi troppo diversi: troppo veneziano lui; troppo maremmana lei.
“Ho avuto un periodo
di gran lavoro. Sei nella tua Maremma?”
“Sì, ma sono in partenza. Vado qualche settimana a New York”.
Eccolo che risaltava fuori dal passato, il giornalista del famoso quotidiano.
“E vabbè” aveva pensato Alvise, incassando il colpo, ma non aveva fatto commenti.
“Non mi dici niente?” aveva proseguito lei dopo il suo silenzio.
“Mi sembra che ci sia poco da dire, no? Quando torni,
chiamami, se ti va”.
Era rimasto a guardare nel vuoto con entrambe le mani appoggiate alla scrivania.
Dopo un po’ si era tirato in piedi ed era andato a guardare fuori. Doveva fare un gran freddo: una di quelle giornate in cui Venezia ti invita a restare chiuso in casa.
“Finita anche questa volta…” si disse. “Chiuso”.
Ma perché doveva sempre finire così?
Come diceva quella vecchissima canzone?
“Finisce qua. Chi se ne va, che male fa” canticchiò tristemente fra i denti. E invece faceva male. Altro che, se faceva male. Tutte le volte. Ogni volta di più.
Si accese un mezzo sigaro per togliersi di bocca quel gusto di amaro. In quei momenti, lo sapeva, l’unica era fuggire, trovare un rifugio, immergersi nel
lavoro.
Tornò a sedersi, riprese in mano i fogli e ricominciò a leggere cercando di concentrarsi.
…È quindi fuor di dubbio che le Marescalcie di Giordano Ruffo di Calabria costituiscono base e fondamento di tutti i successivi trattati di veterinaria in Europa, checché alcuni studiosi vogliano sostenere…
“Così impari, zucón…” disse a mezza voce rivolto a quell’imbecille di un ippologo belga che si
era permesso di contestarlo.
…l’opera, fortemente voluta dall’imperatore Federico II di Svevia e realizzata dal Ruffo, Gran Marescalco imperiale, fu terminata nel 1250, anno della morte dell’imperatore. Secondo alcune fonti, egli stesso avrebbe partecipato alla stesura di alcune parti…
Terminata la rilettura, firmò:
Prof. Alvise Pàvari dal Canal
Professore ordinario dell’Università degli studi di Venezia Ca’ Foscari
Guest Professor alla Harvard University
Membro della Società italiana
di ippologia
Consigliere della World Horse Association
Consigliere del Bureau International du Cheval
ecc. ecc.
Di solito, Alvise non era per niente un trombone cattedratico, ma quando ci voleva ci voleva.
In quel momento il telefono suonò di nuovo. Aspettò un poco a rispondere, trattenendo il respiro. Forse era ancora in tempo…
«Ciao, zio Alvise, sono Anna!»
«Cara la mia picoéta!» le disse, un po’ deluso che
non fosse Aurora. «Come stai e dove sei nel mondo?»
«Sto benissimo, zio, ma ho un piccolo problema che solo tu puoi risolvere» disse lei con voce allegra.
«Dimmi».
«Mi sposo!»
«Ma che bello! Con quello di cui mi avevi parlato? Il siciliano?»
«Con Rosario, sì. Stiamo insieme da più di un anno. Mi spiace che non l’hai ancora conosciuto. Con il nostro lavoro, siamo
sempre in giro».
«Bene. Cosa posso fare?»
«No, non cosa puoi. Cosa devi fare, zio. Cosa devi».
«E cosa dovrei?»
«Devi accompagnarmi all’altare. Sai, da quando papà e mamma non ci sono più…»
In effetti, alcuni anni prima, quando già era avviata alla sua carriera di attrice e viveva da tempo per conto suo, Anna aveva perso entrambi i genitori in un tragico e insolito
incidente.
Maria Vittoria, unica sorella di Alvise, e suo marito Ignazio, industriale e finanziere milanese di nobile famiglia lombarda, amavano moltissimo la montagna e lo sci su neve fresca. Quel giorno di settembre, a Courmayeur, erano andati a fare una semplice passeggiata ‘a funghi’; il tempo non era un granché e, conoscendo bene la montagna, non volevano correre rischi.
Avevano
visto arrivare i nuvoloni e, con tutta calma, erano tornati verso il loro chalet di legno e pietra che era a poche centinaia di metri.
Avevano sentito arrivare i tuoni dalle vallate, ma erano ancora lontani; nel giro di pochi minuti loro sarebbero stati in casa sotto il tetto di lose e avrebbero acceso il caminetto. Si tenevano per mano.
Il fulmine no, quello non lo avevano né sentito né visto: si era scaricato sulla punta di ferro dell’Alpenstock di Ignazio. Li avevano trovati così, ancora per mano: non si erano sicuramente accorti di niente.
«Accompagnarti all’altare? Io? In chiesa?» aveva detto Alvise sentendosi rizzare i capelli in testa.
«Sei il mio unico zio… e io sono la tua unica nipote».
«Ma…»
«Ci
sposiamo in Sicilia, al suo paese… la famiglia… sai: sono i Marescalchi di Brancaforte…»
“Marescalchi?” pensò Alvise che aveva appena finito di scrivere del gran marescalco imperiale “guarda che caso”.
«Non vorrai mica farmi fare una figura da Cenerentola? Già faccio l’attrice…»
«Be’… E quando sarebbe?»
«A giugno: hai quasi sei mesi per prepararti psicologicamente».
Erano andati avanti un bel po’: lei con un incredibile
tono fra il serio e il faceto a fare la parte della povera orfanella e lui a fare quella del sior Todero brontolon.
E, naturalmente, alla fine l’ebbe vinta lei.
«Ma niente tight! Quello non me lo metto neanche se piangi in cinese!» aveva detto lui come estremo colpo di coda.